L’uomo che voleva essere pittore
Il critico Michel Tapié nel 1970 scriveva: «Dassu existe et existera comme artiste ... j'ai emmené de ses oeuvres autour du monde, montrées aux U.S.A. et au Japon avec les Gutaï, je le reproduis dans mes livres... J’ai aussi connu monsieur Piacenza, dont je m’honore d’avoir eu l’amitié.
Collectionneur des oeuvres audacieuses d’un "maintenant" qui était le sien, il a su intégrer ces oeuvres d’art dans le cadre d’un art de vivre où l’amitié confidentielle trouvait sa profondeur d’épanouissement...”. Intorno a questa frase ruota una vicenda artistica partecipe di un periodo di sperimentazione ed evoluzione dell’arte che va dagli anni quaranta alla fine degli anni sessanta.
Giorgio Piacenza, nato nel 1910, industriale nel campo della moda, ha voluto dedicarsi anche alla pittura, prima come allievo di Giulio Da Milano, poi, cononosciuto tramite Franco Garelli il critico Tapié ed il suo entourage di artisti che si coagulavano intorno all’International Center of Aesthetic Research (I.CA.R.), si interessa all’arte astratta come mecenate e collezionista di pitture e sculture di giovani artisti giapponesi, francesi, tedeschi e italiani. Inizia quindi una sua sperimentazione, abbandonando la pittura ad olio ed affrontando i nuovi materiali offerti dall’industria. Per vent’anni nel suo studio di Superga conduce una ricerca che partendo dalle vinilpitture (materie a base vinilica) via sperimenta tecniche sempre più complesse e negli anni sessanta produce opere assai elaborate da lui definite “décollages”. Personaggio mondano, ma artista schivo, non voleva esporre e per questo restò totalmente libero nella sua produzione ed esterno al mercato. Furono poi i suoi amici Wilhem Wessel, rappresentante della scuola informale tedesca, Franco Garelli, pittore, scultore e ceramista e Franco Assetto, fondatore del “Baroque ensembliste” a convincerlo ad esporre insieme a loro prima a Lima in Perù come gruppo WEGAS e poi a Biella. Piacenza si presentò con lo pseudonimo di DASSU (da Superga), come DASSU fece poi una personale a Genova e così fu presentato da Tapié a Milano e nel mondo.
Dassu non fu un artista dilettante, nella sua arte spese altrettante forze che nella professione, fu in contatto con molti artisti del mondo informale e scambiò con essi idee, pensieri e tecniche. Nella sua vita ebbe periodi di forzata convalescenza per gravi malattie a cui reagì con una rinnovata ansia creativa. Morì nel 1969 e negli ultimi due anni produsse forse mille opere. Distrusse gran parte della sua grandissima produzione perchè non completamente soddisfatto, molte opere le rielaborò e riutilizzò in altri quadri. Oggi nel suo archivio restano tantissime opere e questa mostra, fortemente voluta dalla famiglia e dalla Galleria del Ponte, è un primo momento di rilettura di un personaggio per scelta non sulla ribalta, ma centrale nel mondo artistico torinese ed europeo. Rilettura che è funzionale alla conoscenza di un molto vasto movimento culturale ed artistico internazionale tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo Ventesimo che oggi certamente merita più approfondita attenzione.