SCULTORI Oltre la figura. Oltre la scultura

Galleria Del Ponte, Torino
Curatori: Armando Audoli, Stefano Testa
Ricerche plastiche a Torino 1926-2018

Per iniziare il nostro ragionamento critico vogliamo riallacciarci a un pensiero di Martin Heidegger, tratto da L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1935-1936), l’unico testo che vede il filosofo tedesco affrontare sistematicamente la questione dell’arte: «La scultura ha bisogno della pietra con cui anche il muratore ha a che fare a modo suo. Ma lo scultore non usa la pietra. Ciò avviene solo, in un certo modo, quando l’opera fallisce. Anche il pittore ha bisogno della materia colorata, ma anziché usarla la porta ad illuminarsi. Certamente anche il poeta ha bisogno della parola, ma non la impiega nello stesso modo in cui sono costretti a farlo coloro che abitualmente parlano o scrivono». Heidegger intende dire che ogni sentiero artistico, in quanto cammino della ricerca umana, è al tempo stesso «sviamento, avanzamento, smarrimento».
Queste tre parole sono fondamentali per comprendere il discorso della nostra mostra. Una certa arte “moderna”, e in particolare certa statuaria (talmente stanca della sua tradizione millenaria), a partire dal complesso periodo di transizione compreso tra le avanguardie storiche e le neoavanguardie, ha sentito innanzitutto la necessità di sviare: sviare dal circuito chiuso dei percorsi obbligati, svoltare rispetto alla convenzionalità della tradizione ma anche rispetto a quella dei manifesti programmatici di rottura, ben consapevole che la chiave di svolta non può mai coincidere con una violenta cesura tra passato e presente. Per essere “attuali” non bisogna rompere, bisogna scantonare. Solo così un linguaggio veramente “di ricerca” può pensare a un effettivo avanzamento. Solo così, smarrendosi e abbandonandosi con rigore alle innumerevoli potenzialità poetiche della materia, si può tentare di percorrere un sentiero autonomo e rinnovato. Un’altra parola importante che ci piace recuperare – in un simile contesto – è la parola “ispirazione”, al di fuori (sia chiaro) di ogni sospetto di neoromanticismo. Anzi, l’idea di ispirazione alla quale abbiamo intenzione di riferirci è stata rimessa in gioco in tempi abbastanza recenti proprio da un artista come Giulio Paolini, che ha fatto della tensione mentale, del concetto, una corda espressiva assoluta, una vera conditio sine qua non.
Riflettendo sul tema “Osservatore-Osservato”, in una videointervista del 2014, Paolini afferma: «La figura dell’osservante è una figura che ripristina in qualche modo la forma della ispirazione, che tutti abbiamo messo in castigo, perché c’erano buone ragioni per farlo, evidentemente, ma che non deve scomparire del tutto. L’ispirazione è, come dire, un modo di osservare o di lasciarsi osservare in maniera innocente, senza aspettative. È un modo di essere.
È chiaro, va da sé, che un’opera senza chi la osserva è come non esistesse. Però l’osservatore non ha un ruolo di definizione dell’opera: ha un ruolo di complemento, questo sì autorevole e necessario, ma non può modificarne il principio, lo spirito». A scanso di equivoci, Paolini precisa subito dopo: «Tanto per fare un esempio io ricordo ancora, in anni che furono, quando secondo la teoria della cosiddetta “opera aperta” si consentiva che lo spettatore potesse manipolare un’opera, potesse intervenire di fatto. Ecco, no, questo è scandaloso. È scandaloso perché la sacralità dell’opera può essere ignorata, ma non umiliata».