Mario Davico - L’ossessione. La riflessione

Torino, Galleria Del Ponte
Artista: Mario Davico
Curatore: Cristina Valota

Non stupisce che Cristina Valota, curatrice di questa «incantevole» mostra, si stupisca, in catalogo, d’essere un’archeologa, impropriamente imprestata alla storia recente dell’arte contemporanea. Ma è uno stupore apparente, perché lei stessa poi, nello studio segreto di Mario Davico si rende subito conto, che l’impegno non è poi così differente. Anzi, un segno sintomatico. Perché in fondo d’un continente sommerso si tratta, comunque (com’è di tanti altri grandi del Novecento, dimenticati) che necessita d’una vera, traslata campagna archeologica sul campo, quasi subacquea. Un «attento lavoro di scavo, tra olii, tempere e disegni, che Davico ha accumulato in oltre cinquant’anni» di riottosa diffidenza del mercato, e che «necessita spesso d’un attento lavoro di decifrazione ed interpretazione di indizi», con per di più «l’impressione che certe sue opere non vogliano farsi catturare, che scivolino tra le mani». Magari come la sabbia essenziale ed ermetica d’una clessidra, che s’è drammaticamente rotta, forata - chissà se per sempre.

Si faccia un utile esercizio illuminante: si provi a passare dall’atmosfera raccolta e sognante (per questo s’è osata la definizione, rischiosamente kitsch, d’«incantevole») della torinese retrospettiva alla Galleria del Ponte, e ci si ritrovi di colpo nella distratta e commerciale non-atmosfera della fiera di Miart. Ebbene, anche lì, t’inciampi nello stand Bianconi e ti sorprendi di ritrovarti, ancora una volta, tra gli astratti (furori) e gli incanti sospesi (per dirla con Nono) del bannato, rimosso maestro torinese. Ma qui c’è davvero il rischio che la brodaglia fieristica t’ottunda la sensibilità ed il tuo occhio non prenda a vibrare, in simpatia, da viola amorosa, con queste penetrantissime «figure senza figure»(Carluccio). Che appunto, per galleggiante e remigante statuto, paiono volersi donare e subito sfuggirti, come meduse. Forse una metafora di quel ch’è successo, oggettivamente, con lo tsunami della sabauda Arte Povera, cui nulla si deve togliere, per carità, ma che certo ha fatto, storicamente, terra bruciata, intorno a sé. Di fatti dà una rabbrividente sensazione di spaesamento, ripiombare nel saggio introduttivo di Franco Fanelli, tra categorie mercantil-sociologiche, come la lotta Parigi/New York, la battaglia tra Action Painting e la Solita Pop che sbarca a Venezia, realissimi fantasmi, ma che sono (per sua fortuna) lontani anni-luce da un carattere, anche pittorico, schivo e mordace, quale quello di Davico. Che in una delle ultime immagini (muore novantenne, e trascurato, nel 2010) ci viene incontro con il dito puntato e sarcastico, la dentatura che morde l’aria, per non sibilare: «Ma adesso mi cerchi?». Con la sua doppia parete alla Biennale del ’62 (valorosamente ricostruita, al Miart, dalla coraggiosa galleria Bianconi) allontanandosi dalle sue almanaccate, macchinose architetture sovrapposte anni ’49-50 (in stile Impalcatura di Mondrian) via dal precedente «vorticismo» alla Chadwick, trionfa pudicamente un’arte calibratissima e lampeggiante, tenera ed inflessibile, di Images qui glissen t: inafferrabili pianeti vaganti, di perplessa, sfuggente perentorietà. Forse più Magnelli, che non il vantato Barnett Newman. E, comunque, sovranamente inconfrontabili.

cover
Copertina evento.