Gorza e Saroni - Le geometrie del corpo
Quando, verso la metà degli anni cinquanta, Sergio Saroni (nato nel ’34) si avventa con successo sulla pittura, Gino Gorza (del ’23) ha già fatto alcune scelte esistenziali determinanti. Tutti e due, comunque, scartata ogni tentazione illustrativa tanto più a servizio dell’ideologia, si confrontano con il ritorno di fiamma dell’astratto. La prospettiva di approccio è peraltro differente: il più anziano viene dalla scuola di regola e intelligenza di Felice Casorati; il più giovane rifiuta magisteri vincolanti in un’epoca ricca di suggestioni contraddittorie. Eppure un punto di contatto sembrano riconoscere nel rifiuto della geometria come misura oggettiva, razionale, e nella scelta del ritmo come fulcro del lavoro. Cito Gorza anche per Saroni (da “Via piana della figura”, 2002): “Mi riconosco in identità con il mio corpo, sono consapevole del mio corpo nel coordinamento delle sue parti... Il primo rapporto con l’esterno sono la sua temperatura di vivente, il respiro, la voce, lo sguardo”.
Passando per un consequenziale prosciugamento della figura - il corpo anatomico - Gino arriva ad una geometria di strutture ossee nervose mentali ritmicamente articolate; mentre Sergio punta su una geometria ginnica, che sviluppa le intuizioni di Spazzapan, aggiornate sulla muscolare organicità di Moreni. Presto il giovane è affascinato dall’idea di forma “aperta”. Qualcuno, per lui e i compagni d’indirizzo, inventa le formule ultimo naturalismo e informale naturalistico, come se, una volta avviato il processo di notomizzazione della “natura”, prevalesse il gusto della massa pulsante, non a caso sintetizzata nel rosso animale e nel verde vegetale; qualche altro dice aformale, dove forma è stile e l’alfa privativa ne segnala il rifiuto a favore dell’urgenza espressiva. Invece il meno giovane ancora per alcuni anni insiste a meditare sulle strutture: se debbano essere còlte in azione o restare tensioni sospese; così, quando la materia comincia a sobbollire, la rete delle nervature fisiche e il traliccio dei pensieri e delle emozioni restano protagonisti.
Nessuna anarchia espressiva; anzi il sospetto - suggerito dall’esegeta Galvano e teorizzato dallo stesso artista - è che l’intenzione sia di riconoscere a posteriori un progetto dove il corpo abbia liberato le proprie potenzialità. Sullo scavalco del sessanta, la separazione appare ancora più netta. Saroni avverte in modo drammatico la necessità di ritrovare il bandolo di una matassa che minaccia di essere asfissiante: la sua pittura cerca soggetti situazioni forse storie da raccontare. Ma come? Esperimenta tecniche che individuano diversi piani di organizzazione, per esempio il collage (spiace non veder traccia di questo passaggio, che non riguarda solo Saroni, nella recente esposizione dedicata al collage), attiva complesse strategie di elaborazione materiale che peraltro trovano difficoltà d’approdare ad esiti che lo soddisfino. Gorza non ha bisogno di separare, stratificare, “cucinare”: la sua figura esiste dentro la pittura, non rispetto ad un modello estrinseco, è la pittura stessa che si organizza su chi la viene conformando. Rivelatore il disegno: per Saroni - importante l’acquaforte dal ’62/63 - disegnare è ingabbiare, chiudere l’immagine in contorno incisivo; per Gorza - sino in fondo - il disegno è scrittura, registrazione del gesto e intelligenza del significato.
I casi di Gorza e Saroni hanno qualità esemplari. Altre volte la galleria del Ponte ha presentato questi due artisti, da soli o in contesto storico più o meno allargato; qui chiede al confronto di evidenziare le caratteristiche rispettive, specialmente evidenti nelle fasi iniziali del lavoro, entro i primi anni sessanta.