Gallizio | Rama | Merz – Lunatici e visionari
Solo in una città che sfugge alla presa come Torino, algebrica e lunatica, barocca e liberty, città «di spigoli e attriti, di segrete accensioni perimetrate», solo in questa seducente «maestra degli isolati» (dove «la linea retta sfocia nell’abisso», rubando ancora al poeta Milo De Angelis) potevano sfiorarsi i destini di tre artisti così potentemente visionari: Pinot Gallizio, Carol Rama e Mario Merz.
Visionari sono innanzitutto i chimismi cromatici e le alchimie materiche dell’immaginifico Pinot Gallizio (1902-1964), albese laureato in farmacia a Torino, personaggio genialmente febbrile ed assolutamente eccentrico, autore al tempo stesso autoctono e di respiro europeo, capace di ibridare un personalissimo sperimentalismo di marca “esoterica” con le provocazioni della pittura industriale e l’impegno situazionista (in mostra La quintessenza, importante tela del 1961, appare più eloquente di qualsiasi delucidazione critica).
Non meno visionaria è La notte di Carol Rama (1918-2015), pittura trasfigurata e schoenberghiana, presentata alla Biennale di Venezia del 1950; oltre a La notte, quadro lunatico per definizione e carico di una spettrale tensione allucinatoria, altre due rare opere dello stesso anno ci fanno conoscere una Carol Rama meno nota, ancora giovane eppure già matura, morbosa e anomala efflorescenza sbocciata nella serra artistica di Felice Casorati, ma in quel breve frangente del secondo dopoguerra oltremodo attenta al dettato picassiano. Tra parentesi, il 1950 fu un anno simbolico e cruciale per Torino, abituata – con l’inganno del suo garbo raffinato – a travolgere precocemente le esistenze dei più sensibili: infatti nella notte tra il 26 e il 27 agosto, all’interno della stanza 46 dell’Hotel Roma, Cesare Pavese (lunatico tra i lunatici) si tolse la vita con un mix di barbiturici, lasciando sul comodino un messaggio d’addio vergato su una copia dei Dialoghi con Leucò , il libro-testamento uscito tre anni prima per i tipi di Einaudi. Siamo sempre lì: Leucò, Leucotea, la Dea Bianca, Ecate... Metamorfosi lunari, che ritornano in eterno. Ossessivamente.
A un periodo atipico e non “ortodosso”, precedente all’adesione al movimento poverista, appartengono altresì i lavori di Mario Merz (1925-2003) proposti in questa densa rassegna. Si tratta di un Merz ancora lontano da neon, igloo e serie di Fibonacci. Un Merz che ancora dipinge: autodidatta, irregolare, barbarico, violento, antinaturalistico, allusivo. In una parola: visionario.
A Torino e in Piemonte, infine, ha trovato una sorta di patria d’elezione il giapponese Horiki Katsutomi (1929-2021), giunto in Italia alla fine degli anni Sessanta, al quale si vuole dedicare un doveroso e affettuoso ricordo. Negli anni Novanta, Horiki lavorò su temi ripresi dall’Odissea, come attesta la grande tela Ogigia IX (1998), che rivela in modo esemplare tutta l’eleganza e lo spessore della sua sofisticata visionarietà: «Cerco un linguaggio universale», confessava Horiki, «per parlare con me stesso e con gli altri, per capire il mio essere e fare capire come penso, quindi come sono, ad altri, per confrontare e correggere la mia rotta. Anche a costo di fare una lunga tortuosa strada. [...] La mia vita è la mia opera».
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