Nato da una famiglia piemontese di produttori di vermouth e liquori, Martinazzi è precocemente affascinato della pittura, esercitata dal nonno, ma si dedica agli studi musicali e classici, per poi laurearsi, dopo la guerra, in chimica pura. Negli anni Quaranta è protagonista di entusiasmanti ascensioni sulle Alpi occidentali. Dal 1943 al 1945 combatte come partigiano nei Gruppi Autonomi delle Langhe, partecipando agli storici venticinque giorni della città di Alba. Dopo la laurea inizia a lavorare nell’industria, anche se presto avverte l’urgenza di assecondare il proprio demone artistico. Nel 1951 lavora come apprendista orafo nel laboratorio torinese dei fratelli Mussa e frequenta la scuola serale per
orafi Girardi. Nel 1953 si trasferisce a Firenze, dove segue la Scuola Statale d’Arte per le tecniche dello sbalzo, del cesello e dello smalto. Prosegue gli studi all’Istituto d’Arte di Roma. Nelle prime esposizioni, risalenti al 1954, allestite presso il Palazzo Reale e presso la galleria La Bussola di Torino, l’artista presenta oggetti in oro, materiale prediletto per la sua purezza e reversibilità. Dopo la prima personale a Torino, nel 1955, Martinazzi ottiene i primi riconoscimenti nazionali e internazionali. Si misura con i materiali più disparati: dal ferro all’oro, dalla pietra al legno, passando attraverso la creta, la plastica e gli smalti. Con gli anni Sessanta si intensificano i riconoscimenti esteri, che arrivano da Ginevra, Parigi, Londra, Monaco di Baviera, Vienna, Praga, New York, Tokyo, Kyoto. Sulla scena italiana non sono da dimenticare le mostre personali, nelle quali emergono i temi fondamentali che hanno guidato oltre quarant’anni di ricerca, come la violenza delle guerre e le vie della pace, l’energia, la materia, il tempo, le trasformazioni, la reversibilità e l’irreversibilità. Nel biennio 1968-1969, durante la rivolta degli studenti e i grandi scioperi, produce opere che sembrano esplodere: usa plastica e nailon gonfiati, che fa fondere in bronzo e in alluminio. Colpito dall’ondata di violenza terroristica legata alla cosiddetta “strategia della tensione”, Martinazzi non rappresenterà più l’intero, bensì frammenti, lacerti di corpo umano. Confidando profondamente nella potenza vivificatrice dell’arte, insegna scultura e sviluppa un particolare interesse per i bambini in difficoltà con il linguaggio verbale.
Specializzatosi in psicologia nel 1970, si occupa di arte-terapia con bambini autistici, lavorando presso l’ospedale di Collegno. Continuano le esposizioni personali a Torino: “L’intero e le parti” alla galleria Galatea (1974) e “Materia e Tempo” alla galleria Sperone (1975). A metà degli anni Settanta organizza i primi laboratori di quartiere, aperti a tutti, con docenti dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Torino. Prende parte attiva ai movimenti pacifisti, con il progetto del monumento contro le guerre, esposto in diverse occasioni nel 1985: presso la galleria Martano, il Museo Diocesano di Venezia e la Basilica di Santa Maria all’Impruneta (un esemplare del bozzetto si trova nei depositi della GAM di Torino). Nel 1978 termina la scultura monumentale Le due forze, collocata presso la Fiat Engineering di Torino, e richiesta nel 1980 da Luigi Carluccio per la Biennale di Venezia; Martinazzi però, inquieto per la situazione politica, rinuncia al prestito. Dopo aver intrapreso per alcuni anni l’insegnamento all’Accademia Albertina di Belle Arti, nel 1982 lo abbandona, per ritirarsi in una dimensione di studio e lavoro. Membro di giurie internazionali in
Germania e in Inghilterra, nel 1991 e nel 1992 ricopre la carica di visiting professor al Royal College of Art di Londra. Ricordiamo, infine, la retrospettiva del 2008 “Bruno Martinazzi. Sculture 1964-1989” al Castello di Rivalta (con testo critico di Armando Audoli) e la rassegna della primavera 2014 “Vivere, essere, volere bene”, allestita alla Pinacoteca Albertina con la curatela di Maria Teresa Roberto e Ellen Maurer Zilioli.